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Non c'è giornata politica in cui non si citi il grande peso che l'Italia trascina con sé: il debito pubblico. Ma cos'è, quanto vale oggi e come funziona?
Il debito pubblico è il debito contratto dallo Stato per soddisfare il proprio fabbisogno. Ovvero, in sostanza, le risorse necessarie per far sì che la macchina statale, fatta di servizi e investimenti, funzioni. La differenza tra entrate e uscite di uno Stato è detta saldo primario. Nell'operazione di calcolo vanno però aggiunti gli interessi sul debito precedente che uno Stato paga ai suoi creditori. Si ha un deficit quando le entrate sono inferiori alla somma di uscite e spese per interessi. Il debito pubblico può essere definito anche come la stratificazione, anno dopo anno, dei deficit.
Un Paese ottiene credito tramite l'emissione di obbligazioni, che differiscono per caratteristiche e durata. Gli strumenti più utilizzati sono i Btp, Cct, Bot e Ctz. Minore è il loro valore, maggiore sarà il tasso di interesse che lo Stato dovrà rimborsare a scadenza. La differenza tra saldo primario e deficit racconta quanto pesi la spesa per interessi, in particolare sull'Italia. Il Paese produce da anni un avanzo primario (le entrate sono maggior delle uscite), ma resta in deficit e continua ad alimentare il debito pubblico perché continua a dover rimborsare i creditori. Se il saldo primario può essere controllato – tra le altre cose – contraendo la spesa pubblica, la spesa per interessi dipende anche da fattori esterni, che impattano sui tassi.
A settembre, il debito pubblico italiano è arrivato a 2.439 miliardi, ma ad agosto aveva toccato il record di 2.463 miliardi. La cifra cruda offre però un punto di vista limitato. Per capire quanto il debito pubblico pesi su un Paese si rende in rapporto al prodotto interno lordo. Alla fine del 2018, il debito pubblico italiano era pari al 134,8% del Pil, una delle percentuali più alte al mondo.
Si discute spesso sulla sostenibilità del debito pubblico italiano e sui parametri da utilizzare per valutarlo. Tra questi si cita spesso la ricchezza privata (che in Italia è alta) e la distribuzione del debito. Tendenzialmente, infatti, potrebbe essere più rischioso che sia a disposizione di privati e operatori esteri. Secondo le stime più recenti, è in mani estere circa un terzo del debito pubblico. Anche se la quota è – in realtà – più bassa se si considera che include istituzioni europee e società italiane esterovestite. La percentuale è minoritaria ma è enorme se si guarda al 4% del 1988.
Secondo i criteri di Maastricht, uno Stato dovrebbe avere un rapporto debito/Pil inferiore al 60% o (come nel caso dell'Italia) dare segnali di riduzione (sempre in rapporto al prodotto interno lordo). Un debito eccessivo potrebbe portare un Paese a non rispettare i propri impegni, e quindi al default. Il debito pubblico italiano è andato crescendo dalla metà degli anni '60, impennandosi negli anni '80. Dopo gli accordi di Maastricht e l'arrivo dell'euro (che ha ridotto i tassi sui titoli di Stato), c'è stato un calo. Il debito però, sia per una contrazione del Pil sia per l'esigenza di maggiore spesa pubblica, tende ad aumentare in fasi di stagnazione o recessione. Ecco perché ha avuto un nuovo sussulto dopo la crisi finanziaria del 2008, per poi appiattirsi negli ultimi anni.
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