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Nelle oscillazioni delle criptovalute non è sempre semplice individuare una relazione tra causa ed effetto. A meno che non si muova la Cina. Tra maggio e giugno, le scelte di Pechino hanno provocato un calo netto dei Bitcoin, valuta digitale che spesso fa anche da barometro dell'intero settore. Ecco che cosa è successo, perché, quali sono stati gli effetti immediati e quali potrebbero essere quelli di lungo periodo.
Il primo scossone è arrivato a maggio. Gli organismi preposti alla vigilanza finanziaria in Cina hanno vietato a banche e società di pagamenti di fornire servizi legati allo scambio (sia per il trading sia per l'acquisto) e alla conversione di criptovalute in valute fiat (cioè a corso legale, come il dollaro, l'euro o lo yuan).
Il valore dei Bitcoin ha risposto con una perdita secca del 25% in 24 ore. E ancora peggio è andata ad altre criptovalute, come Ether e Cardano. La decisione di Pechino non riguarda solo il valore corrente (e quindi chi è già in possesso di monete digitali): condiziona gli scambi futuri, disincentiva l'estrazione di nuovi “gettoni”.
Il disincentivo all'estrazione (detto “mining” nel mondo crypto) è diventato blocco poche settimane dopo. A giugno, le autorità della provincia di Sichuan hanno fermato l'estrazione di criptovalute tagliando l'energia che la alimenta. Il mining, infatti, ne richiede quantità enormi. E non è un caso che si sia concentrata nel Sichuan, grande potenza idroelettrica. C'erano già stati, nelle settimane precedenti, divieti simili (nella regione dello Xinjiang e nelle di Qinghai e Yunnan). Ma colpire il Sichuan vuol dire fermare il maggiore centro estrattivo del Paese (e del mondo).
Dopo un primissimo periodo aperto alle criptovalute, Pechino ha progressivamente aumentato le restrizioni. A muovere la Cina sono diversi motivi. Da una parte c'è un certo scetticismo nei confronti delle valute digitali. Le autorità, anche lo scorso maggio, ne hanno sottolineato l'eccessiva volatilità e la manipolabilità. Spaventa inoltre (non solo in Cina) il carattere anarchico delle criptovalute, per propria costituzione prive di un'autorità centrale e quindi particolarmente lontane da una gestione centralizzata di uno Stato autoritario.
L'irrigidimento di Pechino, però, si deve anche alla volontà di creare un proprio yuan digitale. Anche se molto diverso da una criptovaluta (non sarebbe decentralizzato come i Bitcoin ma rappresenterebbe una versione digitale dello yuan), la Cina teme che le altre valute virtuali possano ostacolare quella di Stato.
C'è infine il timore di un dispendio energetico eccessivo. C'è la preoccupazione di un consumo in crescita, che potrebbe assorbire parte della produzione di rinnovabili che la Cina intende utilizzare altrove.
L'effetto più immediato delle scelte compiute da Pechino a maggio e giugno è stato il calo repentino della capitalizzazione delle criptovalute. I Bitcoin, che a metà aprile si erano arrampicati ai massimi, oltre i 50 dollari, si sono ritrovati sotto i 30 mila.
Le maggiori banche cinesi e i servizi di pagamento come Alipay hanno annunciato il blocco delle operazioni crypto per accogliere le direttive delle autorità finanziarie. C'è quindi un oggettivo restringimento del mercato emerso. Il blocco potrebbe spingere all'uso di strumenti meno istituzionalizzati. Ma questa è un'ipotesi tutta da verificare.
Ci potrebbe poi essere un effetto domino sulla produzione delle criptovalute. Il mining richiede capacità di calcolo e costi dell'energia bassi: come qualsiasi attività commerciale, infatti, diventa fruttuosa quando i ricavi sono (il più possibile) superiori ai costi. Se l'estrazione non sarà più concessa in Cina, è difficile immaginare che si fermerà. È molto probabile, invece, che migri dove – oltre ai lacci meno stringenti – ci sia un costo dell'energia basso.
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