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Il 2020 è iniziato sotto il segno, non proprio benaugurante, di un hashtag: #WW3, cioè terza guerra mondiale. Il motivo è stato l'inasprirsi delle tensioni tra Stati Uniti e Iran. Un'aria di conflitto che ha mosso i mercati senza però sconvolgerli come avrebbe fatto in altre occasioni. Forse perché, dopo tre anni di presidenza, atti e parole di Donald Trump vengono assorbiti con meno impulsività. Un atteggiamento che pare aver avuto le sue ragioni: la tensione resta, ma si sono aperti spiragli di dialogo che pochi giorni fa sembravano improbabili.
Il 3 gennaio, un attacco di Washington su Baghdad ha ucciso Qasem Soleimani, il generale a capo della Quds, il corpo speciale delle Guardie Rivoluzionarie che si occupa delle operazioni all’estero. Una figura chiave per Tehran, perché tra gli artefici della linea iraniana nei confronti di Iraq, Siria, Libano, Israele e Stati Uniti. Un attacco diretto, sia per l'obiettivo centrato che per le modalità plateali.
La reazione è stata immediata, prima attraverso le minacce, poi con i fatti: nella notte tra martedì 7 e mercoledì 8 gennaio, l'Iran ha attaccato due basi irachene che ospitano militari Usa. Bersaglio centrato ma nessuna vittima. Sembra un nuovo gradino dell'escalation. Invece il successivo discorso di Trump - pur confermando le rigidità nei confronti di Tehran – ha smorzato i toni. Il presidente degli Stati Uniti ha affermato che, finché sarà alla Casa Bianca, l'Iran non avrà l'arma nucleare, che ci saranno sanzioni immediate e che la Nato dovrebbe far sentire con maggior forza la sua voce. Poi, però, ha sottolineato che Washington non intende usare la propria forza militare, che con l'Iran dovrebbero esserci “priorità condivise” e che gli Stati Uniti sono “pronti alla pace”. Poche ore dopo, l'ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Kelly Craft, ha inviato una lettera al Consiglio di sicurezza dell'Onu in cui gli Usa si sono detti pronti a “seri negoziati”.
Diplomazie al lavoro quindi e situazione non certo appianata. Ma rispetto alle prospettive iniziali, i timori si sono di certo smorzati. E i mercati hanno reagito di conseguenza. Subito dopo l'attacco iraniano alle basi statunitensi, c'è stata una corsa al bene rifugio per eccellenza: l'oro si è arrampicato oltre i 1610 dollari l'oncia, un valore che non si vedeva dal 2013. Anche altri asset-rifugio, come i treasury a 10 anni e i Bund hanno reagito, con un calo dei tassi. Il brent ha avuto un balzo attorno al 5%, salendo fino a sfiorare i 76 dollari. Le rassicurazioni, di Trump in primis ma non solo, hanno però convinto i mercati. Il prezzo dell'oro ha ripiegato nel giro di poche ore, così come hanno ripreso quota i tassi sul mercato obbligazionario. Discorso simile per il greggio, che però deve ancora affrontare le incertezze di alcune compagnie che stanno monitorando attentamente la situazione nel golfo persico.
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