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Dopo la spinta delle trimestrali sopra le stime e la pausa di Ferragosto, i mercati sono tornati a fare i conti con l’incertezza e i listini hanno virato verso il basso nell’ultima parte del mese. Le ragioni sono varie: le preoccupazioni sulla diffusione della variante Delta del Coronavirus, le tensioni geopolitiche legate alla crisi in Afghanistan, le prospettive di uscita dall’attuale politica monetaria ultra accomodante da parte della Fed e i timori di nuove strette del governo di Pechino su alcuni settori economici.
L’aumento dei contagi da COVID-19, a causa della variante Delta, ha contribuito ad alimentare la volatilità dei listini, invitando gli investitori alla prudenza, di pari passo con la reintroduzione di misure restrittive in diversi Paesi. La pandemia resta un fattore di rischio per l’economia globale. Gli analisti ipotizzano un possibile rallentamento della crescita dell’economia, ma con l’avanzare delle campagne vaccinali non si crede che ci sarà una inversione di tendenza nella ripresa globale.
I mercati azionari globali hanno reagito negativamente al verbale della riunione del FOMC (Federal Open Market Committee, il braccio operativo della Banca Centrale Americana), da cui è emerso che la Federal Reserve potrebbe cominciare a ridurre gli acquisti di titoli entro la fine di quest’anno anziché́ all’inizio dell’anno prossimo come si pensava.
Ma se la maggior parte dei rappresentanti della Fed ritiene opportuno iniziare a ridurre il ritmo degli acquisti di asset già quest’anno, contando sui risultati raggiunti sul fronte dell’inflazione, diversi membri del FOMC hanno sostenuto che il tapering non dovrebbe partire prima del 2022.
E in effetti il presidente della Federal Riserve, Jerome Powell, al simposio di Jackson Hole del 27 agosto, ha detto che l’inizio del tapering (la riduzione degli stimoli) è “possibile” entro la fine dell’anno. Ma un intervento prematuro potrebbe rivelarsi “molto dannoso”, visto il clima di incertezza alimentato dalle debolezze dell’economia americana e dalla proliferazione della variante Delta. Powell ha anche detto che il rialzo dei prezzi causa preoccupazione, ma è convinto che l’aumento sia provvisorio e si possa tornare al target del 2%.
Inizialmente, i mercati hanno mostrato poco interesse agli sviluppi della crisi in Afghanistan, ma la presa di Kabul, gli attentati e le conseguenze geopolitiche della conquista del potere da parte dei Talebani hanno inciso sulla volatilità, nella consapevolezza che si tratti probabilmente di una crisi che durerà a lungo con conseguenze geopolitiche.
Il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan favorisce infatti il riequilibrio verso un mondo multipolare e non più dominato dagli Stati Uniti. Cina, Russia e Turchia sono i Paesi considerati posizionati meglio per contenere l’instabilità in Asia centrale e per intrattenere relazioni commerciali con l’Afghanistan guidato dai Talebani. Si aspetta un aumento dell’influenza cinese nell’area. Non solo: gli sviluppi in Afghanistan sono destinati a influenzare anche il panorama politico Usa in vista delle elezioni di medio termine del 2022.
La Cina procede nel tentativo di ridimensionare gli eccessi della finanza adottando misure dirette nei settori che ritiene più a rischio. Si è cominciato con le Big tech, come Alibaba e Tencent, poi si è passati all’e-learning e al gaming. Il presidente Xi Jinping ha inoltre dichiarato guerra alla diseguaglianza della ricchezza, sollecitando i giovani cinesi a consumare prodotti made in China anziché quelli di importazione. Gli investitori si chiedono quali saranno ora gli altri settori colpiti dal giro di vite cinese, che potrebbero avere effetti a cascata sull’economia globale.
Mentre l’economia cinese cresce meno del previsto, la produzione industriale ha mostrato un rialzo annuo del 14,4% contro il precedente 15,9% e su base mensile il dato ha registrato un +6,4% contro il +8,3% del mese precedente.
Intanto la Sec, l’autorità che regola la Borsa americana, ha inviato il suo ultimatum alle società cinesi quotate. La commissione di Borsa USA chiede “maggiore disclosure” con la fornitura della documentazione necessaria a conoscere le “incognite di regolamentazione e politiche”, pena il delisting entro il 2024.
L’industria automobilistica resta in affanno per la carenza globale dei chip e anche i maggiori produttori lanciano un’allerta sui prossimi mesi. Toyota, la più grande azienda a livello mondiale, ha annunciato che taglierà la produzione del 40% a settembre, seguita probabilmente da Volkswagen.
Il peggioramento nella carenza dei semiconduttori è dovuto in parte a un ritorno di casi COVID-19 in Asia e sta interessando gli impianti industriali in tutto il mondo, dal Nord America all’Europa fino all’Oriente.
Le notizie si sono abbattute sui mercati, portando al ribasso i titoli dell’auto. Secondo una stima riportata dal Washington Post a inizio agosto, l’industria dell’auto globale produrrà quest’anno 4 milioni di veicoli in meno del previsto, perdendo circa 110 miliardi di dollari in vendite.
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