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Lo scontro tra gli Stati Uniti e Huawei non riguarda solo Donald Trump, né solo gli smartphone (che, anzi, sono solo un pezzo del puzzle). Già l'amministrazione di Bush figlio aveva messo gli occhi sul gruppo cinese. Ed è durante la presidenza di Barack Obama che Huawei è stata esclusa dagli appalti pubblici. Con Trump, lo scontro è diventato frontale. Non solo con la società ma anche con Pechino.
Già durante la campagna presidenziale, Trump parla di dazi e punta il dito proprio sul settore tecnologico. Dopo l'elezione, la Casa Bianca accusa chiaramente Huawei e un'altra società cinese, Zte, di essere una minaccia per la sicurezza nazionale. Le compagnie non hanno mercato negli Stati Uniti, dove non vendono stabilmente smartphone e dove non hanno accesso alla fornitura delle reti per il 5G (uno dei grandi punti di concorrenza tra Usa e Cina). A Trump, però, non basta: nel corso del 2018 intensifica le pressioni sugli alleati (Australia, Nuova Zelanda, Europa) per far sì che adottino provvedimenti restrittivi simili a quelli in vigore negli States. Gli Stati procedono però in ordine sparso, con l'Ue molto dubbiosa. Fallita la via politica, la Casa Bianca alza la posta: viene arrestata in Canada, per aver violato le sanzioni contro l'Iran, Meng Wanzhou, responsabile finanziario di Huawei e figlia del fondatore Ren Zhengfei. Piovono accuse reciproche: Huawei parla di un arresto politico.
Passano alcuni mesi e le pressioni statunitensi non si concretizzano in un fronte “occidentale” anti-Huawei. Trump decide allora (e arriviamo così alle scorse settimane) di fare un altro passo: include la società di Shenzhen nella “Entry list”, una sorta di lista nera che preclude alle compagnie americane di lavorare con quelle che vi sono incluse senza consenso governativo. È una mossa che, a cascata, obbliga le società statunitensi a interrompere collaborazioni dirette con Huawei. Nel giro di poche ore, rompono Google e i produttori di chip come Qualcomm. Senza chip, Huawei potrebbe rallentare la produzione o rivolgersi a fornitori cinesi (anche se il gruppo ha affermato di avere scorte sufficienti per gestire l'eventuale momento di passaggio). L'impatto di Google è ancora più ampio, perché la società sviluppa Android, il sistema operativo installato sugli smartphone Huawei. L'interruzione dei rapporti consente alla società cinese di usufruire solo della versione open source di Android (più povera e con aggiornamenti più lenti) e impedisce di avere a disposizione Google Play, il negozio digitale di Google e le app del gruppo (ad esempio Youtube, Gmail, Maps).
Cosa cambia? Per chi ha già un Huawei, praticamente nulla. Sistema operativo e applicazioni continueranno a essere disponibili e aggiornate. Diverso è il discorso per i prossimi smartphone, che potrebbero non avere le app di Google preinstallate (come avviene oggi) o non averle affatto. Il condizionale è d'obbligo, sia perché l'ordine è stato sospeso e non si sa ancora se sarà definitivo, sia perché anche Big G ha fatto sapere di dover valutare le implicazioni della rottura. Non ci sono precedenti e non è quindi definita l'evoluzione dei rapporti. Se Huawei non avesse a disposizione Android e alcune applicazioni, non sarebbe un grosso problema per i mercati statunitense (dove non c'è) e cinese (dove l'ecosistema è diverso). Potrebbe esserci invece un impatto in Europa. Huawei ha risposto affermando di essere pronto a lanciare un proprio sistema operativo. Che però non sarebbe, da sola, la soluzione definitiva: la difficoltà sarebbe costruire un ecosistema, fatto di sistema operativo, ma anche di app, sviluppatori e utenti. La società cinese ha anche fatto causa al governo americano perché l'iscrizione alla entry list sarebbe incostituzionale.
Il focus dello scontro, però, non sembra essere il mercato degli smartphone. Huawei è una delle poche società al mondo capaci di sviluppare la rete 5G, grande propulsore tecnologico dei prossimi anni. C'è quindi una lotta sulle infrastrutture strategiche e, più in generale, sul primato tecnologico tra Stati Uniti e Cina. Senza dimenticare la battaglia sui dazi. Difficile dire cosa accadrà prossimamente, ma l'affare Huawei potrebbe ulteriormente irrigidire Pechino e Washington, accentuando le spinte protezionistiche. Un atteggiamento che non conviene a nessuno. Le catene produttive tecnologiche di Cina e Usa sono infatti interconnesse. Qualcomm e Google sono importanti per Huawei, che dovrebbe cercare alternative, ma perderebbero un cliente importante. E se anche Pechino varasse misure simili a quelle volute da Trump, a risentirne saranno le compagnie americane che hanno parte della produzione in Cina, come Apple. Alcune aziende, come Samsung (che è stato eroso dai marchi cinesi) o Ericsson e Nokia (principali concorrenti nel 5G) potrebbe avvantaggiarsi. Ma tutto questo pare, al momento, solo un effetto collaterale dello scontro geopolitico (che passa anche dalla tecnologia) tra la Cina e gli Usa.
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