La Federal Reserve statunitense potrebbe pentirsi di aver dichiarato che il ridimensionamento dello stimolo monetario dell’epoca della crisi sarebbe stato a dir poco noioso.
Perché difficilmente l'economia statunitense crescerà abbastanza rapidamente da giustificare il livello di restringimento previsto. La Fed potrebbe smettere di aumentare i tassi d’interesse già nel primo trimestre del prossimo anno.
Da ottobre 2017, quando la banca centrale ha iniziato a ridurre il suo portafoglio di titoli, il suo “doppio” restringimento ha visto il costo del finanziamento aumentare di 100 punti base (pb) mentre il bilancio si è ristretto di 350 miliardi di dollari, una cifra che riteniamo equivalente a ulteriori aumenti dei tassi di 35 pb.
Questa situazione ha già iniziato a pesare sui settori tradizionalmente più sensibili ai tassi d’interesse, compresi quelli automobilistico e immobiliare, che complessivamente pesano per un decimo dell'economia statunitense.
Con l'amplificazione dell'impatto del restringimento, la prossima vittima potrebbero essere gli investimenti aziendali, che contano per il 15% della produzione economica.
Il mercato obbligazionario ha già scontato la possibilità di un aumento dei tassi da parte della Fed di altri 50 pb tra adesso e fine 2019 e di una riduzione del suo bilancio di altri 500 miliardi di dollari, il che equivale ad altri 50 pb di rialzi dei tassi (si veda il grafico).
Ma questo, a nostro avviso, rappresenta un restringimento eccessivo che potrebbe lasciare l'economia statunitense, già in fase di raffreddamento, in una condizione ancora più fragile.
Secondo i nostri calcoli, un restringimento di 100 pb delle condizioni finanziarie di norma porta a una riduzione di 1 punto percentuale nella crescita del PIL dell’anno successivo.
Aggiungiamo al mix le persistenti tensioni commerciali, il dissolvimento degli effetti dei tagli fiscali e della spesa del governo1, e il rischio di una soft patch, ossia una debolezza temporanea dell'economia, non pare più un’ipotesi così remota. Potrebbe verificarsi già nel primo trimestre del 2019.
Piuttosto che rischiare una difficoltà economica, riteniamo che la Fed adeguerà la propria politica di restringimento rallentando il ritmo dei rialzi dei tassi d’interesse. Frenare le vendite degli attivi in portafoglio sarebbe più problematico in quanto si rischierebbe l’ira del Congresso. Anche questa opzione potrebbe però prendere corpo se dovesse subentrare un malessere più profondo – ciò che il presidente della Fed di St Louis, James Bullard, descrive come possibili “crepe” nell'economia.
Nel caso di una pausa nel rialzo dei tassi da parte della Fed, i tassi d’interesse a breve termine scenderebbero più rapidamente rispetto a quelli a lungo termine, portando a quello che possiamo definire un irripidimento rialzista della curva dei rendimenti.
E, dato forse più importante, il dollaro statunitense, che è molto sensibile alle oscillazioni nell’estremità corta della curva, si indebolirebbe, concedendo un po’ di ossigeno alle economie dei mercati emergenti in particolare, dove buona parte delle società ha accumulato ingenti debiti in dollari.
Se e quando la Fed allenterà la politica di riduzione del bilancio, i tassi a lungo termine dovrebbero scendere, con un movimento definito bull flattening, ovvero un appiattimento rialzista.
Come abbiamo visto nello scorso decennio a partire dalla crisi finanziaria del 2008, seguire le complessità delle decisioni di politica monetaria della Fed non è esattamente un’attività noiosa.
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