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Il valore della moneta, ovvero quanti beni riusciamo ad acquistare con la stessa cifra, non resta immutato nel tempo, ma varia in base a una serie di fattori, primo fra tutti il livello generale dei prezzi e la loro crescita, ovvero l’inflazione. Il cosiddetto potere d’acquisto indica la capacità reale dei redditi di acquistare beni o servizi in relazione all’indice dei prezzi.
Il potere d’acquisto indica quanti beni si possono acquistare con una certa quantità di denaro, dato un certo livello dei prezzi. Quindi, il rapporto tra il prezzo che si paga per acquistare un bene e il prezzo di quel bene dà come risultato il potere d’acquisto.
Facciamo un esempio: ogni mese, un risparmiatore guadagna 2.000 euro e, di questi, 400 euro vengono impiegati nel fare la spesa. Un aumento dell’inflazione del 10% porterà il costo del carrello a 440 euro al mese, con un’incidenza sul reddito mensile dal 20 al 22%. Ciò significa che, per continuare a sostenere lo stesso tenore di vita, il risparmiatore avrà davanti a sé due strade: accettare di perdere potere d’acquisto, rinunciando a parte della spesa oppure intaccare i suoi risparmi.
All’aumentare del livello generale dei prezzi, quindi in presenza di inflazione, il potere d’acquisto del denaro diminuisce. Viceversa, se i prezzi scendono, il potere d’acquisto del consumatore aumenta. Dal potere d’acquisto dipende quanto un individuo, un’azienda o uno Stato riescono a soddisfare i propri bisogni in base alle risorse a disposizione.
Supponiamo che lo stesso soggetto con uno stipendio di 2.000 euro, spenda 100 euro al mese per le bollette di luce e gas. Se i prezzi dei beni energetici raddoppiassero, la stessa quantità di luce e gas che l’individuo era solito consumare a un costo di 100 euro, passerebbe a costare 200 euro. Anche in tal caso, se decidesse di continuare a spendere sempre 100 euro per le bollette, dovrà consumare la metà; se invece volesse consumare la stessa quantità di energia, l’incidenza della bolletta sul suo stipendio passerebbe dal 5 al 10%, con il risultato che avrà meno risorse da spendere per l’acquisto di altri beni.
La misurazione del potere d’acquisto è utile anche per fare un confronto sul costo della vita tra Paesi diversi. Oltre all’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), infatti, l’ISTAT usa come indicatore dell’inflazione anche l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA), una metodologia comune a livello europeo; grazie a questo strumento, è possibile mettere a confronto la misura dell’inflazione tra i diversi Stati membri dell’UE.
I diversi tassi di inflazione registrati nei singoli Paesi, a loro volta, influenzano il potere d’acquisto di uno Stato, andando a incidere sulla bilancia commerciale. In quest’ottica, è possibile che un Paese registri un aumento dei prezzi sui beni importati, con una conseguente maggiore spesa a suo carico per gli stessi, ma anche che noti una crescita dei prezzi dei beni che esso stesso produce ed esporta; questo comporterebbe una plausibile crescita dell’export, trainato dai prezzi, ma con volumi presumibilmente più bassi, dal momento che i prodotti commerciati all’estero sarebbero più costosi e meno competitivi.
Inoltre, si dice che un Paese con un’economia interconnessa a quella di altri Paesi possa importarne l’inflazione. Sono esposti a questo fenomeno, ad esempio, gli Stati che lavorano le materie prime. Se aumenta il prezzo delle materie prime, come sta accadendo in questo momento, chi importa determinati materiali per trasformarli dovrà pagarli di più e quindi il suo potere d’acquisto diminuirà.
La crescita dei prezzi delle materie prime e dei prodotti energetici verificatasi negli ultimi mesi ha fatto crescere l’inflazione e sta erodendo la capacità di spesa dei cittadini.
In Italia, nel mese di settembre 2022, l’indice generale dei prezzi al consumo calcolato dall’ISTAT su un paniere di beni ha registrato un aumento dell’8,9% rispetto allo scorso anno. In particolare, l’Istituto di Statistica ha registrato un aumento del “carrello della spesa”, con una crescita del 10,9% dei prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona e dell’8,4% per i prodotti ad alta frequenza d’acquisto. Ma sono i prezzi dei beni energetici a farla da protagonisti in questa speciale classifica, con aumenti del +44,5%. Ed il costo dell’energia ha evidenti ripercussioni su tutti settori, specialmente quelli ad alta intensità energetica e sui prezzi delle relative produzioni di beni e servizi.
In questo scenario, i prodotti presi in analisi, come cibo, elettricità e gas, sono indispensabili per un individuo o una famiglia e la possibilità di risparmio su di essi è minimale; per questo si parla di spese “incomprimibili”, in quanto pressocché inevitabili. Quindi, se questa tipologia di spesa aumenta, ma lo stesso stipendio del consumatore rimane invariato, il potere d’acquisto per altri consumi, come abbigliamento o tempo libero, si riduce.
Le tensioni sui prezzi colpiscono soprattutto chi percepisce redditi fissi, ma molto dipende anche dal livello di reddito. Le famiglie con entrate più basse si vedranno costrette a ridurre o a rimandare i consumi comprimibili, ovvero tutto ciò che non è indispensabile alla sopravvivenza, come l’acquisto di abbigliamento o arredamenti. Al contrario, le famiglie con redditi elevati spenderanno di più per i loro acquisti e probabilmente andranno incontro a una riduzione dei risparmi.
Secondo l’Ufficio Economico di Confesercenti, gli italiani nel secondo semestre del 2022 perderanno 12,1 miliardi di euro di potere d’acquisto, che significa in media 470 euro in meno a famiglia in soli sei mesi. Questa “perdita” ha un impatto su risparmi e consumi e, a cascata, sul PIL dello Stato.
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