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“Ritorno dell'inflazione” è espressione fuorviante. L'inflazione, cioè l'incremento dei prezzi, c'è (quasi) sempre stata. Fino a pochi mesi fa, però, sembrava essere solo un dato statistico perché incapace di incidere. Anzi: se un problema si è posto, è stato quello di un'inflazione troppo debole, che ha incoraggiato le politiche monetarie estremamente espansive senza il rischio di infiammare il rialzo dei prezzi. Adesso però le cose sono cambiate: il rimbalzo post-pandemia ha spinto l'inflazione a livelli tali da preoccupare mercati e Banche Centrali.
Secondo le stime preliminari dell'Istat, a settembre l'indice nazionale dei prezzi al consumo ha registra una diminuzione dello 0,1% su base mensile (da +0,4% di agosto) ma un aumento del 2,6% su base annua (rispetto al +2% di agosto). L'incremento è stato più forte delle attese. “L'inflazione – ha sottolineato l'Istituto di statistica – continua ad accelerare, portandosi a un livello che non si registrava da ottobre 2012”.
Anche se i dati non collimano perfettamente per questioni legate al metodo di calcolo, l'Eurostat conferma il rafforzamento dell'inflazione, al 3% in Italia. A settembre, il tasso della Zona Euro è salito al 3,4% anno su anno, con un incremento di ben 0,4 punti percentuali rispetto ad agosto. Pesano soprattutto i rincari dell’energia (+17,4%). Ci sono Paesi, come Estonia e Lituania dove l'inflazione galoppa già oltre il 6%.
Alcune Banche Centrali si sono già mosse e altre stanno pensando di farlo. L'istituto polacco, per la prima volta dal 2012, ha rialzato il tasso di riferimento dopo aver registrato un'inflazione del 5,8%.
La Banca Centrale norvegese ha portato il tasso di riferimento allo 0,25% e quella neozelandese allo 0,5%. Per quanto si tratti di cifre ancora molto basse, restano significative perché rappresentano la prima inversione di tendenza dopo anni. In stand-by la Bank of Japan (che ha i tassi a lungo termine a zero) e la Bank of England, sulla quale però crescono le pressioni in favore di un intervento.
Gli occhi sono però puntati, come sempre, soprattutto su BCE e Fed. Nei mesi scorsi, i due presidenti, Christine Lagarde e Jerome Powell si sono spesi nel dire che i tempi non sono ancora maturi. Lagarde, in particolare, si è detta sicura che, “Passati gli effetti indotti dalla pandemia, ci aspettiamo che l'inflazione scenda”. In altre parole: poco più di una fiammata, figlia di una ripresa estremamente vigorosa. Parole tradotte in fatti: la Fed avvierà entro la fine dell'anno gli acquisti di asset, ma non intende rialzare i tassi prima del 2022. La BCE guarda ancora più in là, al 2023.
Intervenuta l'8 ottobre al B20 Summit, Lagarde ha però (parzialmente) corretto la rotta. Resta convinta che l'incremento dei prezzi sia destinato a rallentare, ma “Alcuni fattori che spingono l'inflazione potrebbero non essere transitori”. La BCE, ha proseguito, “Non deve reagire eccessivamente ai rialzi dei prezzi dell'energia ma seguirà con molta attenzione gli sviluppi sulle contrattazioni salariali e sulle aspettative di inflazione”. L'obiettivo resta quello dell'inflazione ottimale, al 2% nel lungo periodo. Un intervento precoce o troppo irruente rischierebbe di frenare la ripresa.
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