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L’amministratore delegato di Microsoft, Satya Naella, ha affermato di aver assistito a «due anni di trasformazione digitale in appena due mesi». La pandemia globale da COVID-19 ha generato una accelerazione senza eguali nei processi di digitalizzazione del lavoro e delle attività produttive. Ma cosa accadrà ora?
Dopo anni di allarmismi sulla sostituzione tecnologica dei lavoratori, ora che siamo nel bel mezzo di una crisi occupazionale, e non per colpa dei robot, la domanda che tutti ci poniamo è: come può il digitale far crescere la nostra economia e creare posti di lavoro? Software, computer, macchine, nel pieno della pandemia, hanno permesso a molti di continuare a lavorare e all’economia di reggersi in piedi.
Macchine e robot, nel pieno della emergenza, sono serviti a eseguire mansioni al posto dei lavoratori, mettendoli al riparo dal rischio di contagio. Il pericolo è che, una volta finita la crisi, rimangano solo i robot senza i lavoratori. È quello che Markus Brunnermeier, economista di Princeton, ha chiamato “effetto Roomba”: con la pandemia, le famiglie licenziano le persone che si occupano delle pulizie domestiche per timore del contagio e ordinano un robot Roomba. Finito il lockdown, il robot rimane e chi faceva le pulizie o perde il posto o lavora meno ore.
Uno studio del McKinsey Global Institute, intitolato “Il futuro del lavoro in Europa”, spiega che il mix tra automazione e congelamento dell’economia dovuto alla crisi brucerà posti di lavoro, ma accelererà contemporaneamente il processo di creazione di nuove figure professionali. Il problema è che i due processi viaggiano a velocità diverse, producendo inizialmente una contrazione dell’offerta di lavoro per certi settori, ma anche una mancanza di profili professionali necessari alle imprese, producendo una forte concentrazione geografica del lavoro. Con una crescita localizzata nei grandi hub tecnologici e nelle grandi città del pianeta.
In un’epoca in cui il distanziamento fisico diventa sempre più importante per proteggere la salute pubblica, diminuire il personale presente in azienda, con il lavoro da casa o impiegando robot, potrebbe essere anche una garanzia di maggior sicurezza. Con ricadute che potrebbero essere positive anche sui profitti: i robot possono continuare a lavorare anche quando la forza lavoro umana si ammala o non rientra al lavoro per paura di essere contagiata.
Ma nel corso di una recessione che produce milioni di nuovi disoccupati, installare nuovi robot potrebbe essere troppo costoso per le imprese piegate dalla crisi. Ma non è detto che sia così. Secondo uno studio del Brookings Institutes, l’automazione cresce in maniera particolarmente rapida proprio durante le recessioni. Questo perché quando le aziende perdono ricavi, risparmiare diventa sempre più importante. E così si è più spinti a ridurre il costo del lavoro e a licenziare personale. Ma non si possono licenziare tutti i lavoratori. Il datore di lavoro così sarà portato a licenziare i lavoratori meno qualificati, sostituendoli con le macchine, facendo restare in azienda quelli più qualificati e in teoria più produttivi.
Amazon, per esempio, secondo i dati di Linkedin, è l’azienda che più ha assunto nel primo semestre del 2020 per soddisfare la crescente domanda di prodotti a domicilio. Ma allo stesso tempo sta introducendo in alcuni magazzini nuovi robot per trasportare i pacchi da un lavoratore all’altro in modo da ridurre la necessità di contatti ravvicinati. Aumentano i profitti di Amazon, aumentano i posti di lavoro, aumenta l’automazione e anche la ricaduta economica delle aziende che vendono più prodotti sulla piattaforma.
In teoria, l’effetto finale quindi è positivo. Ma non sempre il processo è così lineare. Come hanno ricordato i premi Nobel per l’economia Eshter Duflo e Abhijit Banerjee nel libro “Good Economics for Hard Times”, l’automazione ha un effetto di “dislocamento”: elimina i lavori a bassa qualificazione e li rimpiazza con altri che richiedono maggiore abilità ed istruzioni.
L’automazione di una fabbrica, ad esempio, potrebbe produrre la perdita di alcuni posti di lavoro ma crearne nuovi presso un suo fornitore, perché la prima azienda aumenta la sua produzione e quindi ha bisogno di un numero più alto di componenti. Ma questi nuovi lavori potrebbero trovarsi da tutt’altra parte, e potrebbero richiedere competenze del tutto diverse.
Sul lungo periodo, gli effetti dell’automazione saranno positivi, ma – ricordano Duflo e Banerjee – «il lungo periodo rischia di essere molto lungo». Se la pandemia accelererà i processi di automazione, allora, diventerà sempre più importante capire quanto durerà questo periodo e cercare soluzioni per renderlo più breve possibile. In ogni caso, gran parte delle soluzioni passerà da un investimento massiccio nella formazione dei lavoratori, in modo da renderli pronti a ricollocarsi laddove i nuovi lavori saranno creati.
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